Friday, June 25, 2010

Fallimento sudafricano di Lippi, la pagina più nera del nostro calcio

[Below, from Francesco Molinari, reporting on the events of the World Cup and social issues worldwide from from Venice and Rijeka [Croatia]. Fallimento sudafricano di Lippi, la pagina più nera del nostro calcio translates loosely as "The Failure of Lippi in South Africa, the darkest chapter in Italian soccer." We'll try to catch up with 'Cesco' by phone for a bit of additional translation and commentary.]

25/6/2010 (7:6) - IL CASO
Fallimento sudafricano di Lippi, la pagina più nera del nostro calcio
A fine partita Cannavaro cerca di consolare Quagliarella in lacrime
condividi twitter
Senza talenti nè coraggio:
ci elimina la debuttante
Slovacchia
ROBERTO BECCANTINI
JOHANNESBURG
Fuori a pedate nel sedere, fuori perché il calcio è un’altra cosa, fuori perché noi italiani non cresceremo mai, tutto o niente, campioni o bidoni.
Slovacchia tre, Italia due è la fine di un ciclo e, vista la stoffa degli eredi, l’inizio di una fine. Era dal 1974 che non si usciva al primo turno e mai, nella storia di un Mondiale, la prima e la seconda dell’edizione precedente avevano tolto il disturbo così presto. Sarà un caso, ma Italia e Francia avevano deciso, e comunicato, la volontà di cambiare ct: da Lippi a Prandelli, da Domenech a Blanc. Chi scrive, aveva lanciato l’allarme subito dopo il debutto con il Paraguay. Non ricordo, a memoria, una Nazionale così piatta, fragile, paurosa della sua ombra. Marcello Lippi offre il petto al plotone di esecuzione. «Colpa mia, sparate». Vero, ma non basta. Essere stracciati per un tempo dalla Slovacchia, 34ª nella classifica Fifa - ripeto: essere dominati e sottomessi in quel modo, ben oltre la vergogna - significa aver sbagliato tutto, e che tutti hanno sbagliato.

1. Le scelte incomprensibili
Attaccarsi agli episodi (gol fantasma e gol annullati, risse e sceneggiate) e agli infortuni (Buffon, Pirlo) non sarebbe nobile, e difatti Lippi se ne guarda bene, anche se nei nostri salotti ci saremmo scannati per mesi. Due pareggi e una sconfitta: nella sua scheletrica magrezza, il peggior bottino di sempre. Il disastro parte da lontano, dalla pancia piena e l’aureola pienissima del Lippi «tedesco», santo dopo per acclamazione. I lettori sanno come la penso: un ct campione del Mondo andrebbe rimosso per decreto. Non è una battuta. E’ una valutazione. I santi dopo camminano sulle acque e tendono a ignorare certi segnali, determinati messaggi.

I nemici sono diventati neutrali, se non addirittura amici; e gli amici, quelli rimasti, si genuflettono. L’Inter tutta straniera fornisce l’appiglio più sicuro, più comodo, Balotelli a parte, e così si procede con i soliti slogan, le solite ricette, la solita minestra. Il gruppo, certo. E le motivazioni. E il furore che quattro anni fa affiorava persino dalle narici. Un santo dopo può molto, anche plagiare, anche clonare. Ci siamo rilassati, ci siamo distratti. Avremmo dovuto essere più vigili, più severi. Evviva il gruppo, a patto di non abusarne. Evviva il calcio «comunista», a patto di non espellere, in suo nome, i «capitalisti» del talento: a maggior ragione, se sono pochi e contati. Ha ragione, Marcello, quando dichiara di non aver lasciato a casa nessun Messi e nessun Cristiano Ronaldo. E le vie di mezzo? Perché no Miccoli (prima che si rompesse, naturalmente) e no Cassano? A Balotelli, Totti e Del Piero avrei rinunciato anch’io e, dunque, mi prendo la mia brava razione di insulti.

2. La gestione del branco
Detto che era una Nazionale «sbagliata», legata con lo spago della Juventus meno Juventus dal 1962 a oggi, vi raccomando la personalità e il livello espresso dai giocatori, non proprio gli stessi raccontati e cantati dai menestrelli delle nostre saghe. Montolivo, tanto per fare un nome. Mi era piaciuto, mi ero buttato. La storia non si ripete; e quando lo fa, si ripete in farsa o in tragedia, confini che, sportivamente parlando, hanno illustrato e seppellito l’Africa del ct.

Lippi non è mai stato Lippi, né nella caccia al branco né nella gestione del medesimo. Già con il Paraguay, l’Italia era sembrata una non-squadra, senza equilibrio e senza ardore, tenuta insieme dalle circostanze e - si pensava, si sperava - dal fatto che prima o poi qualcuno avrebbe acceso un fiammifero. Almeno uno. In attesa di Pirlo, e di un attacco che desse un segno di vita. Lippi ha cercato e arruolato i soldatini ligi e generosi. Li ha governati e indottrinati, non ha guardato all’età (gli anni di Cannavaro) e neppure alla sensibilità dei piedi. Ha espulso le modeste scorte di fantasia che avrebbero potuto agitare gli stagni della malinconia. Ha invocato umiltà e ha ricevuto mediocrità: più di quanta, immagino, ne avesse messa in conto. Poveri noi, se neppure un Mondiale riesce a moltiplicare i pani e i pesci del repertorio, per modesto o scarno che sia.

2. Il labirinto tattico
E poi il labirinto tattico, i troppi moduli, i troppi cambi in funzione di un disegno che l’allenatore aveva smarrito, per arrivare alla sensazione che uno dei più freschi e incisivi, Quagliarella, sia stato sacrificato non si sa bene sull’altare di quale principio. Lippi ha praticato sempre le scelte più estreme, o la va o la spacca: da Zambrotta terzino, un lampo, a Legrottaglie centrocampista, un abbaglio. La sua ultima Nazionale ha dato l’impressione di un gregge in fuga dal suo stesso pastore: o comunque, di non saperne più leggere i silenzi, i gesti, le urla. Le cifre sono impietose: in tre partite, abbiamo incassato cinque gol, più del doppio delle reti subìte in Germania. Le squadre di Lippi hanno un’impronta, oltre che un’anima, con il gioco e i giocatori al servizio di un’idea condivisa. Questa era un guscio vuoto, una zucca così grottesca da spingere lo stesso Gattuso a citare un termine al quale i giocatori ricorrono solo in casi di flagranza assoluta e manifesta: vergogna.

Si è fidato del suo vangelo e dei suoi sacrestani, Marcello, e a forza di farlo, ha finito per farsi scappare di mano la parrocchia. Non un ammutinamento alla francese, rozzo e plateale. Piuttosto, un’implosione interna, lenta e fatale. Credo che sia stato il primo a perdersi d’animo e credo, soprattutto, che sia stato proprio questo «mancamento», captato dallo zoccolo duro, a far saltare il banco, a rendere pavidi i pochi coraggiosi e broccacci i molti normali.

4. Il doppio ct
Abbiamo giocato con il doppio ct, e se non siamo certo fuori per questo, al posto di Abete avrei aspettato ad annunciare Prandelli. Per carità: non è un alibi, e nemmeno un artifizio per attenuare le responsabilità del fallimento, che sono forti, chiare e appartengono, in gran parte, a colui che, nel 2006, ci aveva portati in cima al mondo. E’ incredibile come le comunioni di amorosi sensi non funzionino. Pur di recuperare Lippi, il presidente federale aveva rimosso Donadoni, deluso dal k.o. rimediato nei quarti agli Europei 2008: ai rigori e, per giunta, contro quella Spagna che di lì a poco si sarebbe laureata regina. E Cassano c’era. E Del Piero c’era. Serviva un nome, uno scudo. Lippi. Metà ct e metà allenatore-ombra della Juventus: un’ambiguità imbarazzante, tollerata in memoria del titolo che fu. Resta un grande allenatore, Marcello Lippi, ma questo è un buco nero nella carriera. Più combattuto che combattivo, ha preteso troppo da sé e dagli altri, si è spinto oltre le colonne d’Ercole della fedeltà cieca a una causa e a un metodo di lavoro. E’ caduto da cavallo con un tonfo che difficilmente dimenticheremo.

Ultimi dietro a Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda. Per la sesta volta fuori al primo turno. Le pernacchie dei «carristi» che, di nascosto, avevano mandato a stirare lo smoking di Berlino. Il dileggio e i colpi di tosse dell’universo mondo. Nulla più del calcio incarna la relatività del cosmo. Da Lippi a Lippi, da primi a ultimi: spesso, la realtà supera anche quella fantasia che Marcello ha ignorato.

No comments:

Post a Comment